7 October 2019

Calligrafia, lettering, font: l’esperienza di Steve Jobs che ha cambiato (anche) l’editoria

Steve Jobs

Il Reed College è una solida struttura residenziale con un campus nel quartiere di Eastmoreland a Portland. L’architettura stile Tudor-gotico è imponente e allo stesso tempo romantica, con quelle guglie, i bovindi, i mattoni rossi: un po’ agriturismo tipico umbro, un po’ set di film horror americano con le motoseghe. Soprattutto nottetempo, con la bruma, quando davvero osa diventare parecchio inquietante, complice la mostruosa riserva naturale di foreste boscose che si estende tutt’intorno. Stiamo parlando di una delle Università più costose del Paese (la retta tocca i cinquantamila dollari l’anno), ma anche delle più prestigiose: il NYTimes l’ha definita “la più intellettuale università degli Stati Uniti”.

Qui, nel 1972, uno studente talmente nerd da rasentare lo stereotipo, appassionato soprattutto di sostanze psichedeliche e non sempre legali, decise senza alcun motivo apparente di abbandonare i suoi costosissimi studi e di iscriversi a un corso di lettering, tenuto da un monaco trappista di nome Robert Palladino. Ore apparentemente buttate, che nulla avevano a che fare con i suoi interessi. 

La rivoluzione di un nerd e di un monaco trappista…

Più di trent’anni dopo, in un’altra università americana, la Stanford University, quello stesso ragazzo, chiamato a fare un discorso, avrebbe raccontato agli studenti incantati: «Imparai così le differenze tra caratteri graziati e non graziati, sul variare la quantità di spazio tra le combinazioni di lettere, su ciò che rende grande la grande tipografia. Era bello, storico, sottilmente artistico in un modo che la scienza non può afferrare, e lo trovavo affascinante. Niente che avrebbe avuto nemmeno una speranza di trovare un’applicazione pratica nella mia vita. Invece dieci anni dopo, quando stavamo progettando il primo computer Macintosh, mi ritornò in mente e mettemmo tutto nel Mac». 

Certo, perché quel ragazzo, lo sfigatello, il nerd, l’appassionato di sostanze alteranti, si chiamava Steve Jobs, uno dei più importanti innovativi esseri umani della nostra specie, e la sua storia, creativa, prima che scientifica, ci insegna che nessuna ora è buttata, se il terreno dove cade è fertile.

Nel 1984, questo il senso del suo discorso agli studenti, il Macintosh permise di vedere sullo schermo, per la prima volta, quello che sarebbe andato in stampa, proprio come siamo abituati ora, con una semplicità che oggi ci sembra vintage, ovvia, che diamo per scontata come la gravità o il Sistema Sanitario Nazionale, ma per la quale servì parecchia materia grigia e un colossale senso della fantasia.

“What You See Is what you Get”. Dal “big bang” del desktop publishing all’editoria elettronica contemporanea

Adeguato merito di tutto questo va dato al signor Robert Palladino, il frate trappista di origini italiane che tanto a cuore aveva la materia misteriosa alla base del suo corso. Uomo curioso, monaco di clausura, destino paradossale: da profondo nemico del modernismo del Concilio Vaticano II a insospettabile fonte di ispirazione per il design moderno. Palladino riuscì, in quei mesi di contatto col futuro fondatore di Apple, a trasmettergli il concetto che l’arte poteva costituire un “valore assoluto”, fatto di precisione, armonia, proporzione, tutte istanze che non a caso vengono oggi in mente quando si pensa all’universo Apple e ai suoi derivati.

Può sembrare insomma paradossale o azzardato, ma davvero tutto o quasi tutto viene da qui, se pensiamo ai primi passi della rivoluzione del desktop publishing. 

La grande eredità di Steve Jobs

Se tutti oggi possiamo scrivere righe su un foglio elettronico scegliendo un font, se è così facile premere un tasto e vedere stampate le nostre parole esattamente come su pagina, vederle prendere forma nella realtà, in concretezza, in buona parte dobbiamo dire grazie a quel corso di lettering. 

Per primi, infatti, il Mac e la sua stampante (la LaserWriter) accolsero il linguaggio di descrizione della pagina Postscript messo a punto da una start-up dell’epoca (oggi leader incontrastato del settore), che rispondeva al nome di Adobe, mettendo in pratica quella che forse era l’idea di Jobs più forte e visionaria, il concetto di “What You See Is What You Get” (WYSIWYG) – ciò che vedi è ciò che hai – che diede il “la”, con le sue infinite applicazioni, all’editoria elettronica.

Come racconta ancora lo stesso Jobs: «Il Mac era il primo computer con dei caratteri bellissimi. Se non avessi abbandonato gli studi, il Mac non avrebbe così avuto tanti caratteri tipografici. E se Windows non avesse copiato il Mac, nessun personal computer oggi li avrebbe. Se non avessi abbandonato i corsi, se non mi fossi imbattuto in quel corso di calligrafia, i computer oggi sarebbero peggiori». E forse anche noi.

 

A The Publishing Fair, venerdì 22 novembre, Gianni Parlacino (type designer art director premiato con il Compasso d’oro nel 1979, in era pre-Apple) terrà un workshop sulla progettazione dei font nell’editoria di oggi.

E da Stanford, l’università frequentata da Steve Jobs, verrà a Torino John Willinsky, che ha fondato nel 1998 e tuttora dirige il Public Knowledge Project (PKP), che ha sviluppato il noto software per l’editoria scientifica Open Journal Systems (OJS).

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